Onorevoli Colleghi! - Com'è noto, l'articolo 3, primo comma, della Costituzione dispone che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso (...)».
      A sua volta, l'articolo 51, primo comma, elemento fondamentale della medesima Carta costituzionale, prevede (nella formulazione del testo introdotto dall'articolo 1 della legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1) che «tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».
      Infine, l'articolo 117, settimo comma, della stessa fonte normativa (nel testo

 

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novellato dall'articolo 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) stabilisce - quanto alle regioni - che «le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità d'accesso tra donne e uomini alle cariche elettive».
      Fatte salve le naturali e ovvie differenze esistenti tra donna e uomo, non v'è dubbio che l'area dell'eguaglianza riferibile all'una e all'altro coincida, almeno sulla carta. Tuttavia, realtà ed esperienza dimostrano, oltre ogni ragionevole dubbio, che soprattutto in Italia la strada da percorrere, nell'attuazione delle citate previsioni costituzionali, è ben lunga e obiettivamente complessa, sul piano operativo, quando si cerca di individuare gli strumenti per rendere completa la parità.
      È difficile, infatti, andare oltre l'attività promozionale. La promozione delle «pari opportunità tra donne e uomini» (articolo 51, primo comma, della Costituzione) si è rivelata finora una mera esortazione pressoché priva di conseguenze, dal momento che mancano sanzioni (giuridiche o politiche) di carattere effettivo in grado di «dissuadere» chi persiste nella inattuazione, sotto il profilo qui considerato, del principio costituzionale di eguaglianza.
      Occorre dunque prendere atto che la parità delle donne e degli uomini, nell'accesso ai massimi livelli per l'esercizio delle funzioni pubbliche non esiste (a dire il vero, oggi le disposizioni costituzionali parlano anche di «parità (...) nella vita sociale, culturale ed economica»: ex articolo 117, settimo comma, facendo in tal modo emergere, con chiarezza, l'esigenza di una parità che riguarda tutti gli aspetti dell'esperienza umana). Per essere più precisi, si deve ricordare che, per quanto riguarda l'accesso ai pubblici uffici, il problema della parità non si pone più da quasi un secolo. È inoltre esperienza comune che, tanto per le amministrazioni dello Stato, quanto per gli enti pubblici e le amministrazioni regionali e locali, la presenza femminile nelle qualifiche direttive e dirigenziali è quasi sempre adeguata, talvolta persino prevalente. Squilibri forti ed intollerabili si registrano invece nell'accesso alle posizioni di vertice o apicali (capo-dipartimento, segretario generale, direttore generale, direttore centrale e via elencando a seconda delle nomenclature in uso nelle varie amministrazioni, nazionali, regionali e locali; consigliere d'amministrazione, presidente, amministratore delegato e vertici aziendali in genere). Si deve dunque affrontare la questione della parità delle donne e degli uomini nell'accesso ai massimi livelli nell'esercizio delle funzioni pubbliche o di funzioni comunque connesse a interessi pubblici spettanti agli enti pubblici, tenendo in debito conto due aspetti o momenti qualificanti lo Stato costituzionale: la ragionevolezza delle decisioni amministrative concernenti la preposizione o investitura all'esercizio dei più alti livelli dirigenziali (ciò che corrisponde, come si è giustamente osservato, alla «logica dei valori») e la funzione pubblica chiamata ad attuarla in concreto, secondo il principio di imparzialità (che è connesso all'eguaglianza), ai sensi dell'articolo 97 della Costituzione.
      In estrema sintesi, i capisaldi sui quali si fonda la presente proposta di legge sono i seguenti:

          l'oggetto della disciplina è rappresentato dalla parità delle donne e degli uomini nell'accesso ai massimi livelli per l'esercizio di funzioni pubbliche o di funzioni comunque connesse a interessi pubblici spettanti agli enti pubblici, vale a dire ai più alti livelli dirigenziali;

          lo strumento prescelto per attuare le finalità stabilite dagli articoli 3, primo comma, 51, primo comma, e 117, settimo comma, della Costituzione (anche in connessione con l'articolo 97), è quello della ragionevolezza delle decisioni amministrative concernenti la preposizione o investitura all'esercizio delle funzioni di cui sopra. Ciò che è o non è ragionevole lo si fa emergere attraverso la dialettica, vale a dire il contraddittorio sulla motivazione degli atti e dei provvedimenti assunti da chi ha la competenza ad adottarli, ai sensi di ciò che dispone l'articolo 3, comma 1,

 

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della celeberrima legge 7 agosto 1990, n. 241, stando al quale «ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l'organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato (...). La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle - risultanze dell'istruttoria»;

          ne segue, sul piano operativo (empirico-pratico), che l'amministrazione competente a provvedere è tenuta a svolgere un'istruttoria (funzionale alla realizzazione della parità di cui qui si discute), ad identificare i presupposti di fatto, a delineare le ragioni giuridiche, dunque a motivare ai sensi di legge. L'atto o il provvedimento sarà trasmesso all'Autorità garante, che verificherà l'operato secondo la logica prevalente, ancorché non assorbente, dell'eccesso di potere e delle relative figure sintomatiche. Qualora l'Autorità riscontri che la scelta non corrisponde ai princìpi d'uguaglianza provvede a presentare ricorso al tribunale amministrativo regionale e contemporaneamente sospende l'efficacia della nomina. Tutti i soggetti portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o fondazioni, cui possa derivare un pregiudizio dagli atti o dai provvedimenti di nomina, sono legittimati a denunziare all'Autorità ciascun caso di scelta o nomina che violi i princìpi di uguaglianza.

      La ratio sottesa a un simile «meccanismo» è molto semplice. Messa in disparte la logica delle predeterminazioni quantitative, ciò che si esige, a carico di chi svolge una funzione pubblica rilevante, in un ente pubblico, è che spieghi (renda evidenti) le ragioni del come ha deciso, soprattutto le ragioni relative al perché si è discostato dal principio costituzionale di eguaglianza nei suoi profili attinenti la parità delle donne e degli uomini nell'accesso ai massimi livelli per l'esercizio di funzioni pubbliche o di funzioni comunque connesse a interessi pubblici spettanti agli enti pubblici.
      È evidente, infatti, che gli articoli 3, primo comma, 51, primo comma, e 117, settimo comma, della Costituzione sono precettivi almeno in ciò: che, in linea di principio, la parità «senza distinzioni di sesso» (articolo 3, primo comma, della Costituzione) equivale, sul piano quantitativo, a una suddivisione del tutto nella misura del 50 per cento tra donna e uomo. La legge non ha nulla da precisare sul punto, salvo prevedere - come qui si prevede - che ogni scostamento sia spiegato secondo la logica del contraddittorio, che esprime l'essenza della democrazia. Sicché, nulla può dirsi garantito a priori, in quanto possono mancare, nel caso concreto, persone di un sesso o dell'altro aspiranti o idonee a ricoprire l'ufficio; tutto è assicurato ex post, poiché le ragioni rese esplicite e ritenute persuasive secondo il criterio della verifica della legittimità dell'operato di chi ha scelto, danno conto di un risultato «ragionevole», vale a dire della misura della parità tra donne e uomini realizzabile nella concretezza dell'esperienza e nell'ambito di istituzioni date, non già meramente virtuali.
      È appena il caso di osservare che i componenti dell'Autorità debbono essere esperti in materie giuridico-amministrative, oltre che nell'interpretazione e nell'applicazione dei princìpi di parità: in una parola, avere dimestichezza con l'articolo 3 della legge n. 241 del 1990 e con i relativi problemi di attuazione delle normative destinate a realizzare l'uguaglianza delle opportunità tra donne e uomini. Una volta avviata, la nuova legge consentirà di elaborare standard di giudizio e, con ciò, criteri di riscontro in grado di facilitare l'azione dell'Autorità garante che, in ogni caso, dovrà riferire annualmente alle Camere sui risultati del proprio lavoro.
      Considerate le competenze oggi attribuite alle regioni e, in particolare, quella prevista dall'articolo 117, settimo comma, della Costituzione prima richiamato, si è ritenuto opportuno prevedere un sistema di raccordi che conferisca coerenza, omogeneità

 

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e, quindi, maggiore incisività su tutto il territorio nazionale all'azione di garanzia della parità delle donne e degli uomini nell'accesso ai ruoli di vertice delle pubbliche amministrazioni. Tale sistema si realizza mediante i Comitati regionali per la parità delle donne e degli uomini, che possono essere istituiti con leggi regionali in attuazione dell'articolo 117, settimo comma, della Costituzione. Questi Comitati, ove costituiti, assumono la qualificazione di organi funzionali dell'Autorità, mutuando uno schema già sperimentato per un'altra Autorità nazionale di garanzia. L'Autorità garante della parità delle donne e degli uomini, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, adotterà un apposito regolamento per definire le procedure di raccordo con l'attività dei Comitati regionali.
      Si è preferito stabilire, con legge, il contenuto essenziale, di carattere non regolamentare, della materia, lasciando alla normazione secondaria (come previsto dall'articolo 17 della legge n. 400 del 1988) tutto ciò che è dettaglio esecutivo o comunque deve corrispondere a scelte organizzative puntuali e mutevoli nel tempo.
      Per chi ha il senso delle istituzioni, che a decidere sia il Governo, piuttosto che il Parlamento, non equivale tanto a una diminuzione di garanzie quanto a una maggiore concretezza, che qui ha una rilevanza esemplare.
      La complessità della disciplina, tale per il contesto nel quale si cala e per le sue implicazioni, fa sì che relazione e articolato siano soprattutto un impulso ad maiora, piuttosto che un punto di arrivo: dunque, è auspicabile e richiesta la massima cooperazione nell'esercizio della funzione legislativa e nei necessari ulteriori approfondimenti, che riguarderanno anche la «fattibilità» (per negare la quale, tuttavia, non è il caso di fare ricorso a obiezioni di rito, scarsamente meditate, se non pretestuose). Si vorrebbe poter fare a meno di nuove leggi e nuovi strumenti per realizzare l'uguaglianza costituzionalmente sancita, ma il trascorrere degli anni e l'esperienza impongono di individuare finalmente meccanismi capaci di applicarla piuttosto che declamarla.
 

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